domingo, 13 de junho de 2010

Resenha do livro de Edoardo Ruffini sobre a prática da maioria nas decisões. Ruffini foi dos poucos que recusou "lealdade" ao fascismo. Vale a pena !

Il principio maggioritario
di Rodolfo Costa

Il diritto è un numero? Questa domanda è alla base di una delle questioni fondamentali della riflessione giuridica, e cioè contare le teste oppure "pesare" i voti per giungere alla migliore disciplina possibile di un determinato interesse comune. La soluzione che viene generalmente applicata nei campi privatistici come in quelli pubblicistici è quella di sancire la vincolatività della decisione presa dalla maggioranza numerica dei partecipanti con effetto nei confronti dell’intero gruppo, ma questo criterio ha avuto una sua complessa evoluzione da più arcaici sistemi fondati sul consenso unanime che ha seguito diversi percorsi nei vari ordinamenti in diretta relazione con le concezioni del mondo e delle leggi che nelle varie epoche hanno animato le comunità umane.

"Il principio maggioritario. Profilo storico" è il titolo di un breve e intenso saggio di Edoardo Ruffini (Adelphi, 1987, pagg. 139, € 9.00) che ha conosciuto una fortuna editoriale tormentata e per molti versi inadeguata alla qualità degli spunti che vi sono contenuti. Questa piccola opera rappresenta bene il destino difficile che spesso incontrano le idee più genuine e costruttive nella loro manifestazione e diffusione anche per il solo fatto di essere proposte in particolari momenti di snodo tra stagioni storiche diverse.

Il ventiseienne autore torinese la dava infatti alle stampe nel 1927, all’indomani della svolta nelle vicende politiche del paese rappresentata dalle leggi speciali con le quali veniva reso definitivo l’assetto del regime che fino ad allora aveva convissuto con l’ordinamento parlamentare.

La riflessione sui fondamenti del principio regolatore delle decisioni aveva quindi il valore di uno studio preliminare ad un progetto, una virtù tutta illuminista di un giurista figlio di quel Francesco Ruffini che negli anni Ottanta del secolo precedente aveva delineato, con lo Scaduto e lo Schiappoli, la disciplina del diritto ecclesiastico, una nuova branca del diritto pubblico destinata a dare forma giuridica ai rapporti tra Stato e Chiesa fondandoli sul riconoscimento di quest’ultima come un soggetto caratterizzato da una propria sovranità e quindi compiendo il primo passo verso la risoluzione, nel più schietto spirito laico, del dissidio tra lo Stato nazionale unitario e la Santa Sede.

E proprio il vecchio Ruffini aveva pubblicato nel ’26 sulla rivista di Piero Gobetti, in concomitanza con la promulgazione delle leggi speciali, "Diritti di libertà", un piccolo saggio di occasione che il Calamandrei avrebbe ripreso durante i lavori della Costituente.

De "Il principio maggioritario" invece non rimase alcuna traccia né allora né successivamente (va considerato anche il fatto che il giovane autore aveva rifiutato – tra i pochissimi - di prestare il giuramento prescritto dal regime agli accademici), fino a che non fu recuperato e finalmente pubblicato nel 1976.

Il significato di opere come questa sta nel fatto di appartenere ad un clima, ad un momento particolare per sua natura molto breve nel quale alcuni uomini concentrano le loro energie nel tentativo di interagire con la crisi e risolverla; per esempio Cesare Pavese tradusse nel 1941 la importante opera di Trevelyan sulla rivoluzione inglese del 1688 e l’anno seguente, in uno scenario di guerra ancora più cupo, Carlo Antoni pubblicava la sua "Lotta contro la ragione" testo nel quale studiava le ragioni della ribellione dello storicismo contro il razionalismo illuminista nella cultura europea ottocentesca.

Insomma le sensibilità più acute e le energie migliori erano già all’opera tra bombardamenti e disfatte e come tutti i pionieri sarebbero stati dimenticati molto presto e in varia misura sacrificati alle semplificazioni e distorsioni della ragion pratica.

Edoardo Ruffini aveva interpretato con empito giovanile un aspetto formale, le maggioranze assembleari, cercando di individuarne gli effetti sulle realtà storiche europee medievali e moderne in un ardito confronto tra la forma giuridica e la "sostanza" delle vicende storiche delle istituzioni e delle comunità, che non poteva trovare movente più forte della breve stagione di quel 1926-27 che vedeva l’Italia andare verso la definitiva esautorazione della democrazia parlamentare, e allo stesso tempo partecipare alle dinamiche internazionali legate alla Società delle Nazioni di cui faceva parte. Infatti nel 1924 il Protocollo di Ginevra (approvato con criterio unanimistico, sul quale era fondata l’attività dell’organismo internazionale) aveva parificato la guerra di aggressione ad un crimine internazionale ponendo una serie di conseguenze automatiche in capo ai firmatari per quanto riguardava l’applicazione di sanzioni ai paesi aggressori; nell’anno seguente il rappresentante britannico Austin Chamberlain aveva spinto, in contrasto con la Francia per un superamento di questi obblighi così astratti e stringenti con un sistema di garanzie regionali. Sempre nel 1925 si giunse così alla stipulazione degli "accordi di Locarno" con i quali Germania, Belgio, Francia, Gran Bretagna e Italia concludevano il cosiddetto "Patto renano" con il quale, su impegno tedesco e garanzia italo-inglese, la Germania, la Francia e il Belgio ripudiavano consensualmente il ricorso alla guerra nei termini del trattato ginevrino. Questo accordo ebbe durata breve e problematica proprio per le difficoltà di realizzazione degli impegni assunti da parte italiana e inglese (su questo cfr. Quadri, Diritto internazionale pubblico, III ediz.) e Ruffini stesso motiva il suo contributo con l’imminenza di un congresso a Roma su queste materie. In questa temperie si era mosso il tentativo forse non del tutto disperato di alcune forze intellettuali di far corrispondere, secondo un motto antico e abusato, al pensiero l’azione, la realizzazione di un progetto. Ma nella Storia queste primavere sono quasi sempre molto brevi e rimosse rapidamente da passioni e convenzioni collettive molto meno meditate.

Per la nozione del principio maggioritario è esauriente la definizione che ne da il Messineo con riferimento alle assemblee societarie (art. 2377 c.c.): "la deliberazione dell’assemblea vale deliberazione della società tutta intera ed essa vincola anche i socii dissenzienti, o astenutisi dal voto, o non intervenuti all’assemblea".

Da questo enunciato risultano evidenti le due caratteristiche di fondo del principio e cioè: 1) la "personalizzazione" del soggetto collettivo identificato con l’organo che esprime la decisione, e 2) la forza "normativa" unificante della decisione nei confronti della minoranza dissenziente.

Nel nostro ordinamento questo criterio viene applicato all’intera materia societaria, con le opportune modulazioni relative alle convocazioni, alla rappresentanza dei soci o delle quote, nonché all’oggetto delle deliberazioni, (art. 2363 e segg. per le s.p.a.; art. 2484 e segg. per le s.r.l.; art. 2532-2534 per le cooperative; alle varie assemblee speciali nelle società di capitali); quindi trova applicazione anche nelle associazioni (art. 21 c.c.), e nelle assemblee di condominio (artt. 1135-1137 c.c.).

La disciplina della comunione, invece, conserva ancora tracce del regime improntato alla unanimità di origine romanistica, infatti l’art. 1108 c.c. al 3° comma prevede il consenso di tutti i partecipanti per gli atti di alienazione o di costituzione di diritti reali sul fondo comune.

Ma è nel campo pubblicistico che il principio maggioritario è egemone su tutti gli ambiti della rappresentanza politica e della legislazione (artt. 64, 72 u.c., 77, 80, 81, 123 2° c., 127 3° c., 138 Cost.) ed è lungo il percorso che ha portato all’acquisizione di questo sistema di decisione che si dipana il problema del valore da attribuire alla volontà collettiva, e quindi della determinazione di quella volontà che possa essere pacificamente riconosciuta come sovrana.

La domanda di fondo è dunque se sia legittima qualsiasi istanza che raggiunga quel fatidico voto in più del cinquanta percento, considerando perfettamente uguali i partecipanti, oppure se si debba considerare la diversa qualità dei voti e che quindi vada considerata come legittima soltanto la volontà dei "migliori" indipendentemente dal numero dei loro suffragi.

Il nocciolo giuridico del discorso dell’Autore è che il principio maggioritario si afferma negli ordinamenti europei medievali in conseguenza dell’affermazione del principio corporativo.

Questo principio prende forma nel diritto romano che in età classica vedeva tra i fondamenti della sua costituzione la concezione collegiale delle magistrature (con l’eccezione della dittatura) che comportava la "par potestas" di ciascun titolare che poteva quindi agire in piena autonomia, limitata soltanto dalla "intercessio" di una "par maiorve potestas". Questo sistema unanimistico trovava il suo fondamento nella esigenza politica di controllo dell’operato dei poteri pubblici da parte dei cittadini che fu al centro dei conflitti e dei compromessi che avevano condotto tra l’altro alla istituzione del tribuno della plebe, magistratura dotata appunto di diritto di interdizione nei confronti delle deliberazioni delle magistrature patrizie.

Si deve però si deve considerare che, invece, nelle assemblee fu sempre presente un modello maggioritario tanto nelle deliberazioni dei Comizi curiati e centuriati come in quelle del Senato, delle Curie municipali e dei Concilii provinciali, secondo un sistema presente anche nel mondo greco (Aristotele è aperto sostenitore del sistema maggioritario nella sua "Politica" e la sua dottrina si rivelerà fondamentale nelle epoche successive, soprattutto nel medioevo).

La spontaneità nelle assemblee del sistema di decisione basato sulla maggioranza numerica dei voti si può spiegare con il fatto che esse erano istituzioni ampiamente rappresentative e deliberative ragion per cui non veniva avvertita l’esigenza di controllo che invece veniva richiesta sui detentori del comando civile e militare della comunità. L’esempio privatistico dello "jus prohibendi" riconosciuto a ciascun condomino avverso gli atti dispositivi del bene comune, si spiega con l’esigenza di controllo individuale sui propri interessi tipico della particolare concezione della comunione "juris romani" che era interpretata non come la coesistenza di più diritti soggettivi ma come la vicenda di una unica situazione giuridica destinata ad una divisione e di cui, come abbiamo visto, restano alcune tracce anche nella legislazione vigente (cfr. anche gli artt. 1107, 1109 e 1111 c.c.). Tuttavia va detto che questa potestà interdittiva fu progressivamente temperata con l’ammissione di convenzioni tra i condomini con i quali essi regolavano la gestione del bene comune.

La sintesi del principio corporativo viene fornita da Ulpiano e Scevola: ciò che è stato deciso dalla maggioranza si imputa a tutti.

Nel medioevo questo criterio verrà rielaborato all’interno dei nuovi ordinamenti della Chiesa e dell’Impero, il quale a sua volta risentiva, come i vari regni del tempo, dell’influenza di retaggi barbarici.

Il diritto canonico che introduce due elementi originali e cioè l’intervento divino nelle deliberazioni e l’unità spirituale della Chiesa, per effetto dei quali per lungo tempo all’interno di questa fu applicato un sistema strettamente unanimistico nelle deliberazioni fondato sul principio della "sanioritas", cioè della prevalenza della parte più saggia e autorevole dell’assemblea, così come veniva giudicata dal superiore gerarchico. Questo sistema non era applicabile all’elezione papale per mancanza di superiori gerarchici, e tuttavia era stata fonte di continue controversie, così nel III Concilio Lateranense, tenutosi nel 1179, questo complesso sistema venne confermato, conservando il maggioritario per l’elezione papale ma per le altre deliberazioni, venne combinato con il maggioritario per mezzo della formula "maior et sanior pars".

In altre parole la conciliazione degli inconciliabili, ma questo fu possibile proprio grazie al recupero che in quel periodo i Glossatori stavano svolgendo del principio "corporativo" romanistico, la maggioranza decide per tutti.

La tecnica fu la seguente: la maggioranza si presume "sanior" fino a prova contraria e l’onere della prova incombe ovviamente sulla minoranza.

Si ricorda che tuttora nel vigente Codex Juris Canonici, il can. 119, n.1-3, stabilisce per gli atti collegiali che: 1) se si tratta di elezioni decide la maggioranza assoluta dei presenti a cui segue un ballottaggio tra i due che hanno conseguito il maggior numero di voti o tra i due più anziani di età; 2) se si deve decidere per altre questioni, è valida la deliberazione della maggioranza ma in caso di parità decide il voto del presidente; 3) se, infine, si tratta di una decisione di interesse generale (omnes uti singulos tangit) è richiesta l’unanimità.

Per quanto riguarda l’elezione dell’imperatore, il principio della valida deliberazione della maggioranza degli Elettori (gli arcivescovi di Magonza, Treviri e Colonia, il conte Palatino, il marchese di Brandeburgo e il duca di Sassonia) fu sancito soltanto nel 1356 con la Bolla d’Oro di Carlo VI alla fine di un lungo e laborioso percorso politico e dottrinario costellato di innumerevoli conflitti, che aveva portato all’affrancazione dell’Impero dalla necessità del consenso unanime di tutti gli Elettori.

Questo punto era stato al centro del contrasto con la Chiesa per l’investitura dell’imperatore e nel 1308 era stato l’elettore di Treviri, Balduino conte di Lussemburgo, a volgere a favore della parte imperiale l’applicazione del sistema maggioritario attribuendo la titolarità sola ed esclusiva del diritto di eleggere al collegio degli Elettori considerato come un soggetto unitario e non ai singoli componenti.

Questo principio aveva contribuito a salvaguardare l’integrità del Sacro Romano Impero dalle minacce disgregatrici "guelfe" provenienti dal Papato e dalla Francia sua alleata, e non a caso il recupero del concetto di maggioranza di origine aristotelica era stata svolta prevalentemente da autori di parte imperiale come Guglielmo di Moerbeke, Marsilio da Padova, Engelbert von Volkersdorf, Guglielmo di Ockham, Leopoldo di Bamberga.

A questo proposito, nel ‘400 sarà proprio un canonista, il cardinale Alessandrino a sancire che nelle collettività politiche laicali dovesse applicarsi il suddetto principio corporativo in quanto esso era norma di diritto, mentre la "sanioritas" era applicabile soltanto alle collettività ecclesiastiche in quanto norma di sola equità.

I retaggi barbarici sono rappresentati da un arcaico sistema di acclamazione dei re e dei capi delle orde e dei regni barbarici attestati da una colorita aneddotica (da Gregorio di Tours e altri cronisti) da cui derivò una miriade di assemblee e tribunali fondati sul criterio della unanimità sparsi per tutta Europa e che incidono sulla civiltà dei singoli paesi e sulle loro vicende storiche. Tre esempi molto diversi sono significativi di questa evoluzione: la Polonia, l’Inghilterra e la Svizzera.

Il più significativo è rappresentato dalla Polonia. Questo regno non aveva recepito l’evoluzione della soggettività collegiale come era accaduto per l’Impero, e così dall’elezione del monarca alle deliberazioni delle Diete fino ai più sperduti consigli locali esso era fondato sullo strettissimo principio di unanimità, incatenando così l’attività di questi organi al ricatto di tutte le fazioni di imporre il proprio "liberum veto" a determinate decisioni, compresa la nomina del re, che nella storia polacca era per tradizione elettivo e nazionale. Fu così che tra il 1764 e il 1795, nonostante alcune riforme tardive come l’abolizione del "liberum veto" ad opera del re Stanislaw Poniatowsky, la Polonia perse la propria sovranità e il suo territorio venne spartito tra Austria, Prussia e Russia.

L’esperienza inglese è, invece, molto singolare perché a fronte della "Magna Charta" e delle "Provisions of Oxford" che stabilivano criteri maggioritari per le deliberazioni, sia la Camera dei Comuni che quella dei Lords hanno proceduto fino a tempi recenti con un sistema di unanimità di fatto (acclamazione, alzata di mano ecc.) anche se in alcune istituzioni come il "Privy council" è prescritta la maggioranza, ragion per cui la mentalità empirista britannica ha fatto sì che a seconda dei casi si applichi nel Parlamento il metodo maggioritario pur senza averlo riconosciuto formalmente come un principio di validità generale. Nel campo giudiziario, poi, laddove il Giurì scozzese ha conservato un sistema decisionale maggioritario, in terra inglese il diritto normanno ha consolidato il sistema del verdetto unanime dei giurati tuttora esistente e che non trova il suo fondamento in retaggi barbarici quanto in un dato psicologico: i giurati non esprimono opinioni ma testimoniano una verità, per cui il dissenso di un singolo inficerebbe la validità del "dogma" espresso con la sentenza.

La Svizzera ha recuperato l’applicazione del principio maggioritario nelle assemblee federali soltanto nell’Ottocento dopo la lunga pausa segnata dal contrasto religioso tra cattolici e protestanti. Sistemi di fatto maggioritari (un po’ come in Inghilterra) erano presenti già dal medioevo ed erano stati formalizzati anche nella Dieta di Lucerna del 1515, ma il contrasto religioso condusse all’esautorazione del sistema (nessuna confessione avrebbe voluto subire le decisioni di una maggioranza di religione diversa) così si giunse alla istituzione di diete e tribunali separati per religione con un sistema di veti a livello federale che condussero, sulla falsariga della vicenda polacca, alla occupazione napoleonica e alla Repubblica Elvetica con le successive durezze della restaurazione e del Sonderbund. Sulla base di questa esperienza la federazione dei Cantoni svizzeri ha acquisito alle proprie istituzioni rappresentative il principio maggioritario.

L’Autore descrive un rapido excursus della fortuna che la volontà "dei più" ha riscosso nel pensiero moderno con una diffusa accettazione da Grozio a Pufendorf a Vico a Rousseau, Condorcet, Kant sia pure spesso ispirata alla ragion sufficiente della necessità di un sistema fondamentalmente irrazionale come quello di ridurre una volontà collettiva al conteggio dei voti pur di giungere ad una decisione, ma la frase intorno alla quale sembra ruotare l’intero saggio è quella del Cobden: "le minoranze non hanno altro diritto che di divenire maggioranze a loro volta".

Il problema che si ripresenta a ogni piè sospinto è quello della forza e di quanto fuorviante possa essere l’immagine che la maggioranza numerica da del potere reale ed effettivo (Pascal e Tocqueville); addirittura l’americano Calhoun nell’Ottocento arrivò addirittura a rivalutare il sistema polacco essendo ossessionato dal rischio di oppressione delle minoranze in un ordinamento che fa coincidere la sovranità con la volontà di una maggioranza numerica indifferenziata. Ruffini conclude che il principio maggioritario se sul piano formale ha come suo opposto quello della unanimità, sul piano sostanziale è agli antipodi del principio di autorità, cogliendo questo fatto, nella postilla del 1976, anche in ambito privatistico nel riformato art. 144 c.c. che abolisce la patria potestà sostituendola con una specie di "collegialità" coniugale e nell’art. 230 bis c.c. che disciplina con uno spirito analogo l’impresa familiare.

Nella postilla questa critica della "autorità" ritorna soprattutto sull’argomento che aveva occasionato a suo tempo la redazione del profilo storico e cioè sulla presenza di diritti di veto nelle organizzazioni internazionali e in particolare nel Consiglio di Sicurezza dell’O.N.U., nel quale ai sensi dell’art. 27 dello Statuto delle Nazioni Unite è previsto che sulle questioni diverse da quelle di procedura, la deliberazione deve essere approvata con il voto favorevole di nove membri, tra i quali necessariamente deve essere compreso il voto favorevole dei membri permanenti, ponendo così una differenza di "qualità" dei voti che contamina il principio maggioritario con altri criteri, meno libertari, derivati dallo storico svolgersi dei rapporti di forza tra le potenze sovrane.